EDITORI LATERZA
[Traduzione dall'inglese]
Chantal Mouffe insegna Teoria politica all’Università di Westminster, Londra. Ha introdotto, con Ernesto Laclau, un nuovo approccio alla teoria politica basato sull’analisi del discorso politico. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti (Bruno Mondadori 2007), Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale (con E. Laclau, Il Nuovo Melangolo 2011) e Il conflitto democratico (Mimesis 2015).
Ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro è la convinzione che per la sinistra sia urgente comprendere la natura della congiuntura attuale e la sfida che il «momento populista» rappresenta. Attraversiamo una fase di crisi della formazione egemonica neoliberale e tale crisi apre alla possibilità di costruire un ordine maggiormente democratico. Per cogliere questa opportunità, è essenziale fare i conti con la natura delle trasformazioni verificatesi negli ultimi trent'anni e con ciò che ne consegue per una politica democratica.
Sono convinta che se così tanti partiti socialisti e socialdemocratici vivono una fase di disorientamento è perché sono fermi a una visione inadeguata della politica la cui critica è stata per molti anni al centro delle mie riflessioni. Questa disamina iniziò con Egemonia e strategia socialista, scritto con Ernesto Laclau e pubblicato nel 1985.
L'elemento che ci sollecitava all'epoca era l'incapacità della sinistra, sia nella versione marxista che in quella socialdemocratica, di tener conto di una serie di movimenti emersi sull'onda delle rivolte del 1968, e che coincidevano con la resistenza a una varietà di forme di dominio non definibili in termini di classe. La seconda ondata femminista, i movimenti per i diritti gay, le lotte antirazziste e la questione ambientale avavano trasformato profondamente il panorama politico, ma i partiti della sinistra non furono ricettivi nei confronti di quelle domande di cui non riuscivano a cogliere il carattere politico. Fu dunque per rimediare a queste incapacità che decidemmo di indagare le ragioni di tale situazione.
Ci rendemmo presto conto che gli ostacoli da superare derivavano dalla prospettiva essenzialista che era dominante nel pensiero di sinistra. Secondo questa visione, che definimmo «essenzialismo di classe», le identità politiche erano espressione della posizione occupata dagli agenti sociali nei rapporti di produzione, e i loro interessi erano a loro volta definititi da tale posizione. Non sorprende che questa prospettiva fosse incapace di comprendere domande non riconducibili alla «classe».
Una parte importante del libro era dedicata a ricusare questo approccio essenzialista utilizzando invece idee e spunti offerti dal post-strutturalismo.
Combinando le sue teorie con quelle di Antonio Gramsci, sviluppammo un approccio «antiessenzialista» capace di cogliere la molteplicità delle lotte contro le diverse forme di dominio. Dunque, per dare espressione politica all'articolazione di queste battaglie, proponemmo di ridefinire il progetto socialista nei termini di una «radicalizzazione della democrazia».
Il progetto consisteva nell'istituzione di una «catena di equivalenze» che articolasse le domande della classe operaia e quelle dei nuovi movimenti con l'obiettivo di costruire una «volontà comune» e puntare alla creazione di ciò che Gramsci chiamava una «egemonia espansiva». Riformulare il progetto della sinistra in termini di una «democrazia radicale e plurale» ci permise di inscriverlo nel più ampio campo della rivoluzione democratica, mostrando che le diverse battaglie per l'emancipazione sono fondate sulla pluralità degli agenti sociali e delle loro lotte. Il campo del conflitto sociale era quindi ampliato piuttosto che condensato in un solo «agente privilegiato» quale la classe operaia. Per essere chiari, contrariamente a quanto affermato da alcune false letture della nostra argomentazione, ciò non significa privilegiare le domande dei nuovi movimenti a scapito di quelle della classe operaia. Ciò che ci premeva sottolineare era la necessità per la sinistra di articolare quelle lotte che riguardavano forme differenti di subordinazione senza attribuire una centralità a priori ad alcune di esse.
Mostrammo, inoltre, che l'estensione e la radicalizzazione delle lotte democratiche non avrebbero mai prodotto una società pienamente liberata e che il progetto emancipatorio non poteva più essere concepito come la lotta per l'eliminazione dello Stato. Ci sarà sempre antagonismo, ci saranno sempre lotte e un'opacità parziale del campo sociale. È per questa ragione che va abbandonato il mito del comunismo come società trasparente e riconciliata, prospettiva che implica evidentemente la fine della politica.
Il libro fu scritto in una congiuntura segnata dalla crisi della formazione egemonica socialdemocratica che si era imposta negli anni del secondo dopoguerra. I valori socialdemocratici erano messi alla prova dall'offensiva neoliberale, ma erano ancora molto influenti nel plasmare il senso comune dell'Europa occidentale e il nostro obiettivo era, dunque, capire come difenderli e radicalizzarli. Ahimè, quando nel 2000 pubblicammo la seconda edizione di Egemonia e strategia socialista, segnalammo nella nuova introduzione che i quindici anni trascorsi erano stati segnati da una grave regressione. Con la scusa della «modernizzazione», un numero crescente di partiti socialdemocratici aveva accantonato la propria identità «di sinistra» per ridefinirsi, eufemisticamente, come formazioni di «centrosinistra».
Era questa nuova congiuntura l'oggetto della mia analisi in Sul politico, libro pubblicato nel 2005 in cui ho analizzato l'impatto della «terza via» teorizzata in Gran Bretagna da Anthony Giddens e adottata da Tony Blair con il suo New Labour Partv. Nel testo si mostrava come il nuovo governo di centrosinistra. avendo accettato il terreno egemonico stabilito da Margaret Thatcher intorno al dogma dell'assenza di alternativa alla globalizzazione neoliberale, il famoso «TINA» («There is no alternative», appunto), abbia finito per mettere in atto ciò che Stuart Hall definì una «versione socialdemocratica del neoliberalismo». Con l'affermare l'obsolescenza del modello di politica basato su uno scontro tra parti avverse e sull'opposizione sinistra/destra, e celebrando il «consenso al centro» tra centrodestra e centrosinistra, il cosiddetto «centro radicale» promosse una forma tecnocratica di governo, secondo la quale la politica non è un confronto tra parti ma la gestione neutrale degli affari pubblici.
Come Tony Blair era solito affermare, «la scelta non è tra una politica economica di centrosinistra e una di centrodestra ma tra una buona politica economica e una cattiva». La globalizzazione neoliberale era avvertita come un fato da accettare, le questioni politiche erano ridotte a mere faccende tecniche da affidare a degli esperti. Ai cittadini non si lasciava spazio per compiere una scelta reale tra progetti politici differenti: il loro ruolo si limitava all'approvazione delle politiche «razionali» elaborate dai tecnici.
In opposizione a chi presentava questo stato di cose come un progresso verso una democrazia più matura, ritenevo che tale situazione «postpolitica» fosse all'origine di un processo di disaffezione dalle istituzioni democratiche, che si manifestava nell'aumento dei tassi di astensionismo. Nello stesso libro mettevo anche in guardia contro il successo crescente dei partiti populisti di destra, che fingevano di offrire un'alternativa capace di restituire al popolo la voce che gli era stata sottratta dalle élites dell'establishment. Insistevo, inoltre, sulla necessità di spezzare il consenso postpolitico e riaffermare la natura partigiana della politica, così da promuovere le condizioni per un dibattito «agonistico» sulle possibili alternative.
Mi rendo conto adesso che all'epoca credevo fosse ancora possibile trasformare i partiti socialisti e socialdemocratici per attuare il progetto di radicalizzazione della democrazia che Laclau ed io propugnavamo in Egemonia e strategia socialista.
Chiaramente ciò non è accaduto e nella maggior parte delle democrazie dell'Europa occidentale i partiti socialdemocratici sono entrati in un processo di declino, mentre il populismo di destra ha registrato un'avanzata importante. La crisi economica del 2008, tuttavia, ha portato in primo piano le contraddizioni del modello neoliberale e adesso la sua egemonia è messa in discussione da una varietà di movimenti anti-establishment provenienti sia da destra che da sinistra. Si tratta di una nuova congiuntura che intendo qui analizzare, e cui mi riferirò con l'espressione «momento populista».
La tesi centrale di questo libro è che, per intervenire nella crisi di egemonia, è necessario stabilire una frontiera politica, e che nella congiuntura odierna, per recuperare ed estendere la democrazia, non si può prescindere da un populismo di sinistra inteso come strategia discorsiva di costruzione della frontiera tra «il popolo» e «l'oligarchia».
Quando scrissi Sul politico suggerii di ripristinare la frontiera sinistra/destra, ma adesso sono convinta che il ricorso a tale frontiera, configurata secondo lo schema tradizionale, non sia più adeguato per articolare una volontà collettiva che contenga la varietà delle domande democratiche oggi in campo. Il momento populista è l'espressione di un insieme di domande eterogenee, che non possono essere formulate semplicemente in termini di interessi legati a determinate categorie sociali. Inoltre, all'interno del capitalismo neoliberale sono emerse nuove forme di subordinazione esterne al processo produttivo; esse hanno originato domande che non corrispondono più a settori sociali definibili sul piano sociologico o dalla loro posizione nella struttura sociale. Queste richieste - la difesa dell'ambiente, le lotte contro il sessismo, il razzismo e altre forme di dominio - hanno assunto una centralità maggiore. Per questo motivo oggigiorno la frontiera politica va costruita attraverso una modalità «populista» trasversale. Nondimeno, sosterrò anche che la dimensione «populista» non è di per sé sufficiente a precisare il tipo di politica richiesto dalla congiuntura attuale. È necessario che questo populismo sia infatti qualificato come un populismo «di sinistra» per indicare i valori che persegue.
Riconoscendo il ruolo cruciale svolto dal discorso democratico nell'immaginario politico delle nostre società e fondando, intorno alla democrazia come significante egemonico, una catena di equivalenze tra le numerose lotte contro la subordinazione, una strategia populista di sinistra sarà in accordo con le aspirazioni di molte persone. Nei prossimi anni - questa è la mia tesi - l'asse centrale del conflitto politico sarà, infatti, tra populismo di destra e populismo di sinistra. Di conseguenza, sarà possibile combattere le politiche xenofobe promosse dal populismo di destra solo attraverso la costruzione di un «popolo», di una volontà collettiva che sia l'esito della mobilitazione degli affetti comuni in difesa dell'uguaglianza e della giustizia sociale.
Nel ricreare delle frontiere politiche, il «momento populista» mira a un «ritorno del politico» dopo anni di postpolitica. Questo ritorno può aprire la strada a soluzioni autoritarie - attraverso regimi che indeboliscono le istituzioni liberaldemocratiche -, ma può anche condurre a una riaffermazione ed estensione dei valori democratici. Tutto dipenderà dalle forze politiche che avranno successo nell'egemonizzare le domande democratiche odierne e dal tipo di populismo che emergerà vittorioso dalla lotta contro la postpolitica.