Ma quando ci sono dei fuochi da guardare, la notte passa molto meglio,
è più niente da sopportare, non è più la solitudine.
[Louis-Ferdinand Céline]
«In questi ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia».
Nel 1922 Kafka pubblica un breve racconto intitolato Ein Hungerkünstler. Un artista della fame. Il testo ripercorre le vicende professionali di un artista alquanto insolito, un digiunatore, per l’appunto. I suoi digiuni prolungati avvenivano all'interno di una gabbia esposta al pubblico, gli spettatori erano in gran numero e partecipavano con entusiasmo. Aveva vissuto così per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo. Digiunava. Come aveva sempre fatto e sempre con maggiore facilità. Ma col passare del tempo «come per una segreta intesa, si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo». L’artista fu allora costretto a siglare un contratto per il circo, dove gli venne assegnata una gabbia periferica accanto a quelle degli animali. A ogni buon conto, il cambiamento non produsse sorte migliore, la folla continuò a dimostrare poco interesse e meno pazienza. La paglia divenne sempre più comoda e se la convinzione di continuare il digiuno restava ferma, la fierezza sembrava sparita: «Debbo digiunare, non posso farne a meno, perché non ho mai trovato il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, credimi, non avrei fatto storie e mi sarei abboffato come te e chiunque altro».
Il digiunatore di Kafka evidenzia qualcosa cui prestiamo spesso poca attenzione: gli esseri umani non mangiano soltanto per nutrirsi. A differenza degli animali, l’uomo trasforma di continuo gli alimenti – utilizza le mani, il sale e gli occhi. Il cibo raccoglie un gruppo di protocolli, condotte e comportamenti che si sviluppano al di là del loro fine specifico. L’appetito, la fame, anche la voracità, dunque, non domandano semplicemente l’appagamento di un bisogno, quello di nutrirsi. Non cercano soddisfazione, ma piuttosto di avanzare, di procedere senza fermarsi. Lacan più di tutti ha contribuito a delineare il circuito tra bisogno, domanda e desiderio. L’oggetto della pulsione, il cibo, è chiamato a saturare ciò che non può colmarsi, poiché la pulsione si lega sempre al desiderio, e ancora prima che i denti afferrino il boccone, il concetto di sazietà è di per sé escluso. «Ecco che il desiderio non è né l’appetito della soddisfazione né la domanda d’amore, ma la differenza che risulta dalla sottrazione del primo alla seconda, il fenomeno stesso della loro scissione (Spaltung)». Ciò può condurre il soggetto a provare repulsione per ciò che invece placherebbe il suo palato, nel timore che quegli stessi alimenti siano nocivi, lo contaminino, o producano un aumento di peso.
Sto bene. Ho solo voglia di mettere in ordine. Fare ordine. I primi tempi davo di matto. Impiegavo ore per pulire il battiscopa, la vernice doveva essere bianchissima. Mi alzavo nel corso della notte per controllare tutti i rubinetti, stringendoli perché non gocciolassero. Lavavo e rilavavo i piatti. Le macchie di tè dalle tazze. Non volevo che nulla vi restasse attaccato. Buttavo giù in gran fretta i piatti che non fanno ingrassare. E mi chiedevo che sapore avesse quel bianco così liscio. Volevo che nulla vi restasse attaccato fino a che il bianco diventasse trasparenza e la trasparenza mi stringesse.
L’ultima edizione pubblicata nel 2013 del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder aumenta il numero di paragrafi dedicati ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, ampliando le sottocategorie diagnosticate. Sono otto. Anoressia e bulimia sono le affezioni cui è rivolta l’attenzione maggiore. L’obesità, invece, conserva il suo ruolo ancipite: esclusa dall’elenco degli elenchi, introduce la disamina dei disturbi alimentari prima del suo vero inizio – personificazione dei disturbi stessi, autrice, prologo. Allegoria e non simbolo. Perché mai sazia, perché non piena. «Un’ampia fascia di fattori genetici, psicologici, comportamentali e ambientali che variano tra i diversi individui contribuisce allo sviluppo dell’obesità, che dunque non va vagliata come disordine psichico. D’altra parte, sussistono solide associazioni tra l’obesità e una serie di disturbi mentali (tra cui il disturbo da alimentazione incontrollata, disordini depressivi e bipolari, schizofrenia). Gli effetti collaterali di alcuni farmaci psicotropi contribuiscono significativamente allo sviluppo dell’obesità e quest’ultima può risultare un fattore di rischio per l’insorgenza di certi disturbi mentali».
Non risposi quando cercò di parlarmi, ma presi avidamente il piatto che mi porgeva, mangiandolo in fretta. Mi piaceva allora digiunare, per compensare il tanto che avevo mangiato in quei giorni. A volte mi girava la testa di notte. Prendevo del pane dopo il lavoro, e le bucce di una mela. Nient’altro. Mi piaceva ascoltare lo stomaco farfugliare dalla fame, sapere che avevo fame e non ero pieno. Soffrivo continuamente di emicrania. Mangiavo in modo irregolare. Temevo che inghiottendo, il cibo finisse nei polmoni, e non mi restasse che morire soffocato. Non credevo davvero a quanto ci insegnavano in biologia, di ossa e muscoli. Pensavo che tutto si sarebbe versato fuori. E sarei rimasto vuoto.