Quando aveva vent’anni ed era ancora uno studente della Kunstakademie di Dresda, Gerhard Richter lesse Guerra e Pace ricevendone una forte impressione. A colpirlo fu soprattutto il ritratto offerto da Tolstoj del generale Kutuzov e del modo in cui quest’ultimo osservava il funzionamento delle cose senza intervenire. Attendendo il momento giusto “per dar peso a qualcosa che aveva già cominciato per conto suo”.
Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov era il generale scelto dallo zar per affrontare la Grande Armata di Napoleone dopo la sconfitta di Smolensk. Una volta assunto il comando, l’anziano generale scelse di evitare battaglie campali pur di non mettere a repentaglio l’integrità dell’esercito. La sua strategia rimase inalterata anche dopo l’ingresso di Napoleone a Mosca e il successivo incendio della città che aveva spinto i francesi alla ritirata. Kutuzov, infatti, era convinto che il trascorrere del tempo fosse il suo miglior alleato e contava di logorare Napoleone con il concorso dell’inverno e dei partigiani che popolavano le campagne. Si limitò a seguire con cautela la colonna francese in ripiegamento, mentre i cosacchi, nascosti dai boschi, moltiplicavano le incursioni. Quando raggiunsero il fiume Beresina i francesi erano ormai allo stremo.
In tutto il romanzo il ritratto più incisivo di Kutuzov è affidato al principe Andrej:
“[Il generale] non si farà prendere la mano da nulla di personale. Non escogiterà nulla, non intraprenderà nulla, […] ma ascolterà tutto, ricorderà tutto, metterà tutto al suo posto, non impedirà nulla di utile e non permetterà nulla di dannoso. Egli capisce che c’è qualcosa di più forte e di più importante della sua volontà: è il corso inevitabile degli eventi, e lui sa vederli, sa capirne il significato e, in considerazione di questo significato, sa rinunciare a prender parte a questi avvenimenti, come al suo personale volere rivolto magari ad altro”.
Nel ripercorrere la traiettoria artistica e intellettuale di Richter, sembra che l’artista tedesco abbia provato a riconoscere e seguire le orme di Kutuzov nella neve, cercando a più riprese di mascherare stile e composizione affinché nulla risulti disturbato e tutto rimanga così com’è: “Per questo non pianifico o invento, non aggiungo né ometto nulla”.
1.
Nato a Dresda nel 1932 ma cresciuto in Alta Lusazia, Richter torna nella capitale sassone nel 1951 dove inizia la sua formazione artistica in una città quasi cancellata dai bombardamenti alleati. La Germania è ormai divisa in due Stati e nel 1961 fugge dalla Germania Est per stabilirsi a Düsseldorf, allontanandosi da un ambiente dominato dalle istanze del realismo socialista ed entrando in contatto con il panorama artistico internazionale: l’accademia di Düsseldorf era in quegli anni un polo di ricerca molto attivo nonché centro delle attività di Joseph Beuys e del gruppo Fluxus. Nel primo anno in accademia, Gerhard dipinge freneticamente (distruggerà poi molti di quei dipinti), e inizia a collezionare fotografie in maniera disordinata. Le conserverà per anni in semplici scatole di cartone riversando in questo archivio senza ancora ordine o metodo fotografie dall’aspetto amatoriale e anonimo, cartoline trovate per caso, ritagli da riviste, schizzi, collage:
“Per un certo periodo ho lavorato in un laboratorio fotografico e l’enorme quantità di immagini che passava quotidianamente attraverso l’acido per lo sviluppo deve aver causato in me una sorta di trauma permanente”.
Poco dopo comincia a utilizzare le immagini raccolte come modelli iconografici per le sue opere. Sempre nel 1962 realizza Tisch, copiandolo da una fotografia pubblicata su una rivista di design, e gli attribuirà il numero 1 per inaugurare il suo archivio personale.
I Foto-Bilder (Foto-Pitture) realizzati da Richter da quel momento derivano tutti da fotografie dall’apparenza ordinaria, immagini ricavate da giornali o dalla pubblicità. Su ognuna di esse l’artista interviene con pennellate leggere, cercando di riprodurle nel modo più fedele possibile. Altre volte, invece, introduce una sfocatura dei contorni, come se la macchina si fosse mossa, o sovraespone la scena per far apparire le immagini ancor più simili a una fotografia e sempre meno a un dipinto. Richter dipinge come una macchina fotografica e il passaggio del pennello asciutto sul colore ancora umido crea un’atmosfera di imprecisione e incertezza che sfugge al suo controllo:
“Non cerco di imitare una fotografia, ma di farne una. Se dimentico il presupposto che la fotografia non è altro che un pezzo di carta esposto alla luce, allora pratico questa tecnica attraverso altri mezzi: non realizzo dipinti che ricordano delle foto, ma che lo sono.”
Nel pensiero comune la macchina fotografica rappresenta la realtà in modo più credibile di un dipinto e di un’illustrazione: sa trasmettere delle informazioni anche se la tecnica è carente o gli oggetti poco riconoscibili. Nel disegno e nella pittura, invece, ogni segno produce una distorsione e stilizzazione della realtà. Come aveva evidenziato Sontag nel suo saggio del 1977 – e la riflessione resta valida anche nell’epoca dei deepfake – “una fotografia è considerata dimostrazione incontestabile che una data cosa è effettivamente accaduta: Può deformare, ma si presume sempre che esista, o sia esistita, qualcosa che assomiglia a ciò che si vede nella foto”.
Col passare degli anni i lavori di Richter legati alla fotografia si sono naturalmente raggruppati intorno a dei cicli tematici: i paesaggi, le vedute di città, i ritratti e le scene di famiglia sono solo alcuni di questi. Ma la serie forse più nota – se non altro per lo scalpore suscitato – è 18 Oktober 1977, un gruppo di 15 opere realizzate nel 1988. Il titolo fa riferimento alla data in cui alcuni terroristi della RAF (Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe) sono stati ritrovati senza vita nella prigione di Stammheim.
“La morte dei terroristi, e gli eventi legati a questo fatto, mi hanno provocato ansia e sgomento, nonostante tutti i miei sforzi per rimuovere questi sentimenti. […] Tutte le immagini sono monotone, grigie, molto sfocate e rarefatte. La loro presenza rappresenta l’orrore, un rifiuto di rispondere difficile da sopportare, spiegare, definire”.
Cos’è questo rifiuto di rispondere che traspare non solo nelle tavole della banda Baader-Meinhof? Perché le Foto-Pitture di Richter sembrano, alla fine dei conti, consegnarsi a un senso di impotenza e impossibilità?