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La realtà in un dettaglio. Intervista con Beppe Madaudo




Beppe Madaudo nasce a Palermo nel 1950 e si forma all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1976 pubblica per Rizzoli il suo primo volume “Watanka” che gli varrà il Premio Yellow Kid d’oro come miglior disegnatore italiano. Prosegue il suo percorso come pittore tornando periodicamente al fumetto. Realizza le incisioni all'acquatinta per un libro su Casanova, i fumetti "Salomé" e "De Satyricon", i "Quadri di Divina Commedia", partecipa insiemea Hugo Pratt, Guido Crepax, Milo Manara e Cinzia Leone ai primi quattro numeri di Corto Maltese. Ha pubblicato per numerose case editrici, è stato collaboratore di Paese Sera, dell'Espresso e della Rai. Le sue opere sono esposte in mostre personali e antologiche in Italia come all’estero. È stato inserito fra gli 87 artisti più significativi del XX secolo dall'opera multimediale "Great 20th Century Artist".


Negli anni ti sei cimentato con registri espressivi molto differenti tra loro (dal fumetto alla pittura, alla scultura...), come ti sei avvicinato all’arte e cosa indirizza ogni volta la scelta di confrontarti con un linguaggio artistico anziché un altro?


Avevo poco più di tre anni quando la mia famiglia si trasferì per un certo periodo da Palermo ad Acireale, il paese natale di mio padre. Andammo a stare in una villetta di due piani: mio padre, mia madre, io e mia sorella Teresa – maggiore di due anni – abitavamo al primo piano, mentre al piano superiore c’era una coppia di vecchi signori. Lui era stato un professore di scienze naturali e da che era andato in pensione aveva assunto l’impegno di disegnare tutti gli animali del mondo: farfalle, pesci, uccelli, mammiferi, nessuno escluso... Disegnava e poi rilegava i disegni in un album, proteggendoli uno a uno con la carta del pane.

Quando il professore tornava dal fare la spesa, batteva col bastone alla finestra di casa e io gli andavo dietro. Saliva le scale come se non ci fossi, consegnava la spesa alla moglie e le dava un bacio. Poi si sedeva alla scrivania e iniziava a disegnare. “Aquila delle tempeste: Messico meridionale; apertura alare due metri, due metri e venti; si ciba di selvaggina anche di grossa taglia...”, mentre disegnava era solito descrivere ciò che faceva, e io vedevo quest’aquila tra parole e disegni venir fuori dalla carta. E così per giorni e poi per mesi, finché dopo un paio d’anni non tornammo a Palermo e ci salutammo per sempre. In quei momenti avevo capito cosa avrei fatto: avrei disegnato – avrei voluto disegnare come lui – e avrei inventato la storia dei miei disegni.

Avevo un’idea molto precisa, ma nella realtà non sapevo come fare, ormai avevo dodici o tredici anni e i miei tentativi erano tutti falliti. Senonché un giorno il postino bussa alla porta e consegna a mia madre uno scatolone enorme con tutti gli album del professore, che nelle sue ultime volontà volle che fossero lasciati a me, era la mia eredità. A quel gesto così grande dovevo assolutamente una risposta. E allora mi metto a disegnare e nel tempo divento quello che nel ‘76 fu premiato come miglior disegnatore italiano (Premio Jellow Kid come miglior disegnatore italiano Lucca Comics 1976 ndr). Un intero percorso che nasce da questa esperienza e da questa volontà. Com’è che divento bravo? Non lo so. L’impegno, la voglia di farcela. Ci sono persone che nascono straordinariamente dotate, io non sono tra queste. Ho costruito passo passo le mie doti e così inizio a fare quello che poi avrei fatto per tutta la mia vita. Il mio lavoro incomincia con la pittura e dipingo, è più facile dipingere perché dai espressione a quello che hai dentro e cerchi di materializzarlo. Dopo l’Accademia di Belle Arti a Roma con il diploma in scenografia nel 1973 e con due figlie nella mia vita, avevo la necessità di guadagnare e desideravo farlo con le mie capacità. Iniziai quindi a lavorare a un fumetto sugli indiani d’America.


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