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Il volto immobile, intervista con Renata Soro



Renata Soro nasce in Sardegna ad Alghero ma sviluppa la sua formazione artistica nella città ligure dove risiede e lavora.  Ha tenuto diverse mostre personali – si segnala Rispecchiamenti (2009) presso la Galleria Roberto Rotta Farinelli di Genova – e collettive – tra cui la recente Il segreto di eva/eva's secret (2016). I suoi lavori sono stati esposti alla Biennale Le latitudini dell’arte (2015) e alla 54esima Esposizione Internazionale Biennale di Venezia per il padiglione Liguria (2011).


Nelle quotidianità siamo circondati da immagini e suoi. Abbiamo continue interazioni con più schermi, la soglia di attenzione si abbassa e riuscire a fermare lo sguardo è sempre più complesso. Perché scegli di lavorare con la pittura (in controtendenza con l’evoluzione tecnologica), che nella sua realizzazione - come nella sua fruizione - richiede tempo, concentrazione, pause lunghe?

 

Potrei risponderti che la pittura è una vocazione, un mestiere, una necessità profonda. È vero, oggi non si ha più tempo per fermarsi a leggere un’immagine, così sovraccarichi come siamo di sollecitazioni visive di ogni genere. La nascita di un quadro richiede un tempo infinitamente lungo d’esecuzione, soprattutto se si utilizza la tecnica a olio. Non so se ci sia ancora posto per la pittura, ma posso dirti che il lento processo di realizzazione di un dipinto corrisponde al mio respiro: mentre lavoro con pennelli e colori entro in contatto con il mio vero io. Mi fermo semplicemente davanti a una tela, e, fermandomi, sospendo anche il ritmo della vita intorno a me; ritrovo una dimensione spirituale, interiore, dove è possibile ascoltare il pensiero in un fluire di libere associazioni. Al tempo stesso emergono le difficoltà della pittura legate a una tecnica che richiede dedizione, passione, impegno, insieme a richieste più profonde di carattere psicologico con cui misurarsi.

 

I tuoi ritratti sono spesso inseriti in un clima di attesa e stati d’animo contrastanti, le figure appaiono catturate in un linguaggio di piccoli gesti, rituali, fiori, tatuaggi. Come in una danza, ogni segno sembra chiamare un’interpretazione e una risposta. Eppure i quadri si rifiutano di spiegare loro stessi. Le figure e chi le osserva sono entrambi in una posizione di sospensione, e non resta che osservare da fuori.

 

La superficie di un dipinto diventa per me il luogo di una grande solitudine, uno spazio silenzioso, afasico, ma nello stesso tempo abitato da presenze innumerevoli e invisibili. Hai colto molto bene l’aspetto ermetico del mio lavoro quando affermi che i quadri si rifiutano di spiegare loro stessi. Credo che non si possa spiegare tutto. Infatti non mi fai una domanda a riguardo, né io desidero chiarire aspetti che a volte restano misteriosi anche per me. Un'opera continua a esercitare il suo fascino nel tempo se mantiene una parte del suo mistero.

Un mio collezionista, osservando una serie di lavori in studio, mi disse che avvertiva nei miei quadri un interesse strettamente antropocentrico e che sembravano dipinti sotto l’influsso di una costrizione magica: ho trovato questo commento molto vicino al modo in cui mi rapporto alla pittura.


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