THE ITALIANIST, FILM ISSUE: THE POLITICS OF ITALIAN CINEMA
[Con Marco Piasentier]
Nell’articolo analizzeremo l’ultima produzione del regista Emanuele Crialese, Terraferma (2011). Il film rappresenta con Once We Were Strangers (1997) e Nuovomondo (2006) il capitolo finale di una trilogia dedicata alla questione dell’immigrazione e sposta il focus in maniera più diretta sull’attualità della politica italiana. Il film è stato presentato nel 2011 al Festival del Cinema di Venezia, in un momento in cui le problematiche e le discussioni legate agli sbarchi sulle coste siciliane avevano raggiunto drammaticamente il loro climax. Terraferma esplora il tema dell’alterità e solleva la questione di quali debbano essere le strategie da adottare nel confrontarsi con lo straniero. Si tratta di comprendere, in primo luogo, se Crialese si limiti a registrare il fenomeno, oppure fornisca delle soluzioni a riguardo; in tal caso, sarà necessario definirne la dimensione politica.
La nostra tesi è che Crialese non offra solo un’analisi critica della questione dell’alterità, ma opponga alle vigenti misure d’accoglienza una sua personale forma di resistenza. Diventa quindi legittimo interrogarsi sulla proposta politica avanzata nella pellicola; in tale prospettiva proveremo a problematizzarla da due diverse angolazioni.
1. Legge del Mare come Legge della Vita: attraverso un’interpretazione biopolitica verificheremo come la natura umana diventi per Crialese il presupposto su cui fondare la legge della comunità, destinata a farsi carico dell’oneroso dono della vita.
2. Ospitalità/Rifiuto: mostreremo come l’opposizione tra accoglienza e negazione, definita da Crialese nel film, risponda alla stessa logica di assimilazione dell’alterità a un canone normativo, rischiando di ridurre l’emancipazione dello straniero alla propria testimonianza autobiografica.
L’analisi delle due prospettive investiga l’asse che contrappone Legge del Mare e leggi dello Stato e decostruisce l’ipostatizzazione di questo rapporto di contrarietà. Riteniamo necessario ricondurre l’opposizione all’ambito del politico – come spazio contingente – senza tuttavia mettere in discussione la nozione di impegno ma ‘le sue derive essenzialiste, razionaliste e umanistiche’
LEGGE DEL MARE COME LEGGE DELLA VITA
Consideriamo la biopolitica un riferimento imprescindibile per accedere al nucleo politico del film e farne emergere il carattere essenzialistico. La legittimità della scelta non nasce solo dall’attualità dei lavori di Giorgio Agamben sul campo e sullo stato di eccezione, studi ormai classici, che permettono di interpretare il fenomeno dell’immigrazione attraverso la cornice teoretica della biopolitica. Fermarsi a una simile lettura, ci tratterrebbe in una posizione ancora esterna rispetto all’opera di Crialese, con il rischio di operare una forzatura interpretativa. L’immigrazione può essere spiegata con riferimento a diversi impianti teorici e Crialese non suggerisce alcun rimando specifico alla biopolitica. L’elemento che legittima la nostra scelta, più profondo rispetto alla lettura dell’immigrazione attraverso le teorie di Agamben, è il rilievo assegnato alla natura umana e alla nascita.
I personaggi del film attraverso cui sviluppare l’indagine biopolitica sono Sara ed Ernesto. Sara è una donna incinta che, assieme al figlio, ha intrapreso un viaggio massacrante, iniziato in Etiopia, durato oltre due anni e contrassegnato da violenze fisiche e umiliazioni. Ernesto è un pescatore deciso a non abbandonare il proprio lavoro e i propri valori, entrambi messi a rischio dalle leggi del nuovo sistema economico, le quali sembrano imporre non solo un nuovo modo di produzione e di scambio, ma anche una nuova morale.È dall’incontro tra i due, avvenuto quando Ernesto si tuffa in acqua per salvare Sara e il figlio, che Crialese definisce la sua proposta di impegno. Le dichiarazioni rilasciate in una recente intervista ne chiariscono la posizione:
È un dato di fatto, la legge dello Stato va contro i doveri morali del mondo civile, lasciar morire le persone in mezzo al mare è un segno di grandissima inciviltà. [...] È un problema di direzione morale, il mio pescatore la rotta non l’ha mai persa, ma la maggior parte delle persone oggi in Italia sì.
Il pescatore di Crialese, custode della Legge del Mare, indica la via per correggere la direzione morale del nostro presente, direzione che, secondo Crialese, ‘va a modificare l’istinto umano di fratellanza e accoglienza’. Le parole del regista isolano l’ipoteca biopolitica del film: solo la comunità originaria, la comunità del Mare, espressione della natura umana stessa, può assumersi l’oneroso dono della vita. S’instaura dunque un legame tra natura umana (humanitas) e vita, secondo cui solo chi agisce in accordo con la sua essenza naturale ha il diritto/dovere di farsi carico della vita stessa. L’importanza attribuita al ruolo di Sara nella trama del film trova corrispettivo rilievo nella lettura biopolitica di Terraferma: se tutti gli altri immigrati sono consegnati alle forze dell’ordine, la donna incinta non può essere affidata alle leggi dello Stato. Solo la comunità regolata dalla Legge del Mare è in grado di far compiere alla vita il suo corso. La comunità del Mare deve quindi disobbedire alle leggi dello Stato in nome della vita in sé, come se la natura umana prescrivesse l’esistenza di questa comunità ai fini della vita stessa.
A tale legge rimane fedele Ernesto, quando salva e nasconde Sara, e lo diverrà Filippo quando, prendendo la barca sequestrata, cercherà di portare Sara sulla terraferma. Se Filippo incarna il conflitto tra Legge del Mare e nuova normatività, alla fine, egli si risolve ad abbracciare la prima, una scelta che, per il regista, e qui emerge la deriva essenzialista del film, è prescritta dalla natura umana.
È interessante notare che il mare, pur associato al movimento e al divenire – termini solitamente connessi a pratiche decostruttive – diventi indice di un pensiero essenzialistico. Il mare di Crialese è un mare che accoglie, offre lavoro e cibo, e, al contempo, un mare terrificante, che nasconde tra le onde e i fondali i resti di un’imbarcazione o i corpi di chi è partito dalle coste africane, come pure di Pietro Pucillo, padre di Filippo.
Il flusso del mare rinvia ad una concezione immanente della vita, in cui transitorietà ed incertezza non sono ridotte ad una realtà prima e più autentica. Abbracciare la Legge del Mare non offre una salvezza ultraterrena. Eppure, la transitorietà dell’esistenza non apre uno spazio di contingenza, ma rende la natura umana il presupposto su cui fondare una politica vitalista, che, per diritto naturale, è la sola in grado di sobbarcarsi il dono imposto dalla caducità della nostra esistenza. Se la forza della pellicola di Crialese consiste nel farci osservare con senso critico la condizione degli immigrati, altrettanto rischiosa si rivela la sua proposta politica, poiché trova la propria legittimazione in valori al di fuori della storia. Come ci ricorda Foucault, è necessario opporsi al ‘dispiegamento metastorico dei significati ideali’ e quindi alla ricerca dell’origine: ‘La storia insegna anche a sorridere delle solennità dell’origine. [...] L’origine è sempre prima della caduta [...]; è dal lato degli dèi, e a raccontarla si canta sempre una teogonia.’ In un’epoca caratterizzata dal paradigma biopolitico, il rischio è di cantare la teogonia della Vita. Una possibile strategia per neutralizzare tale logica consiste nel mostrare il carattere in/originario, contingente, dei valori, disinnescando la tentazione di definizioni essenzialistiche dell’essere umano, erroneamente capaci di prescrivere la più vitale tra tutte le politiche. Se la comunità di Crialese è una comunità idealizzata, che misconosce il suo carattere contingente, allora il lavoro d’indagine e di scavo approntato nel film non ci restituisce un’immagine credibile della storia e delle sue complesse trame. Sarà quindi utile valutare come il regista intenda il suo lavoro d’osservazione in rapporto al linguaggio del cinema.
OSPITALITÀ E RIFIUTO, IL MARE E L'INTERRUZIONE
Nei suoi lavori Crialese ha finora posto come cifra personale l’aderenza alla realtà, o forse è meglio dire un confronto con la realtà attraverso la lingua del cinema, ‘che è una lingua di trascendenza’. La realtà possiede in Crialese una trama propria che rimane intatta anche quando se ne discosta ed emerge attraverso gli strumenti della narrazione: in tal modo anche il paesaggio è investito dalle vicende del racconto. Nei campi lunghi e nei campi lunghissimi, quando l’obiettivo di Crialese corre sul paesaggio brullo e sul mare, lasciando che lo sguardo dello spettatore si abitui poco a poco al blu intenso delle scene, l’isola compare nella sua rigida interezza, mostrando lo scarto o l’interruzione che la contraddistinguerà. L’isola di Crialese è uno spazio astratto, irretito nel suo rapporto di continuità col passato, e al contempo calato nell’attuale, uno spazio che permette di mettere a fuoco i meccanismi di produzione della modernità e gli strati sottostanti, rendendo visibile come il nuovo si produca attraverso un confronto polarizzato e feroce con ciò che l’ha preceduto. È possibile disinnescarne le procedure? Quale logica determina il costituirsi di un’identità anziché di un’altra?
Terraferma registra un lungo fermo-immagine in cui i personaggi sono ritratti nelle scelte e nei propri convincimenti di fronte alle vicissitudini esterne. Sono chiamati a prendere una decisione e a valutarne o subirne il peso. ‘Qualsiasi decisione tu voglia prendere, aspetta almeno un’altra giornata’, dirà Ernesto per scongiurare la risolutezza di Giulietta.
Il tempo della modernità è un tempo sospeso? È uno spazio dilatato? È legittimo avanzare in questa direzione, ma si tratta prima di tutto di un tempo dell’interruzione, in cui l’incontro con l’Altro cagiona faglie e sporgenze e l’identità del soggetto non si dà se non frammentata. Risulta allora significativo soffermarsi sul ruolo occupato da Filippo lungo l’asse che contrappone Legge del Mare e leggi dello Stato.
Filippo raffigura anche anagraficamente questo essere presi nel mezzo tra gli insegnamenti familiari del padre e del nonno e la nuova normatività: pur essendo cresciuto sull’isola, deve confrontarsi con esperienze per le quali gli manca un metro di raffronto. Filippo è il primo ad avvistare l’imbarcazione con i clandestini ed è sempre lui a ‘pescare’ al porto ‘tre bei turisti’. Si trova insomma a dover scegliere tra due alternative, ma è per lo più costretto ad adattarsi ai mutamenti che si susseguono. Impostare così la questione, conduce a identificare il personaggio con il territorio stesso e a ritrovare in Filippo quel taglio che segna l’isola, come conseguenza dei cambiamenti generati dal turismo di massa e dall’immigrazione. L’improvviso perturbamento che pare aver preso ad abitare gli spazi familiari produce apprensione e contraddizioni – esemplificativa la fuga di Filippo dal mare e dalla spiaggia senza aiutare i clandestini o denunciarne la presenza –, palesando l’inadeguatezza del presente nell’interpretare se stesso.
Al termine del film, Filippo tenterà di condurre Sara e i suoi due bambini sulla terraferma, cercando la redenzione e assumendo le responsabilità di una scelta fatta propria. Se così stanno le cose, dovremmo interpretare il film non come una rappresentazione della realtà ma come una sollecitazione a scegliere la Legge del Mare.
Crialese contesta la legislazione italiana divenuta effettiva nel 2009 che criminalizza l’ingresso e il soggiorno illegale in territorio nazionale, perseguendo una condizione individuale – quella del migrante – anziché un comportamento pericoloso o lesivo. Il regista ribadirà più volte questa sua presa di posizione.
D’altra parte, se guardiamo ai sistemi giuridici europei – ad esempio quello francese o britannico – scopriamo che la situazione non è così dissimile e l’integrazione dello straniero rimane vincolata alla marginalizzazione o cancellazione della propria eredità storico- culturale: l’identità sociale e nazionale rappresenta il compimento di un processo che neutralizza l’alterità per rinforzare i propri confini. È possibile pensare una via d’uscita da questa logica di inclusione ed esclusione?
Crialese individua come risposta l’assunzione di un sentimento originario di empatia che prevede l’accoglienza. Tuttavia, una logica incline all’accoglienza rischia di incorrere nelle stesse conseguenze, in quanto riduce l’alterità a uno schema interpretativo di appropriazione, riproducendo la stessa contrapposizione binaria, sbarrando l’accesso a una domanda che rimane centrale: ‘Cosa vuole l’Altro da me?’. Lo straniero possiede una soggettività?
In ultima istanza, entrambi i discorsi di rifiuto o di accoglienza dell’Altro, tratteggiati nettamente nella pellicola, non fanno che reiterare la stessa logica di esclusione per cui lo straniero è funzione di un’identità predefinita, o che si definisce attraverso la procedura stessa di esclusione. L’immigrato/straniero risulta così essere sovradeterminato dal di fuori, reso oggetto della relazione.
In Terraferma il soggetto subalterno fatica a diventare soggetto narrante. Se è pur vero che Sara testimonia la sua biografia, è l’unica a prender la parola; i clandestini sono raccontati attraverso il loro corpo, attraverso la ‘pelle nera’ – evocata nel consiglio tra i pescatori –, vivono la loro fisicità in scene di silenzio e apparizioni improvvise. In una delle sequenze chiave, quando Filippo e Maura sono in mare circondati dai naufraghi, lo spettatore avverte distintamente le voci concitate dei due ragazzi ma solo un vociare confuso e basso dal mare. I corpi dei clandestini sono esposti come se possedessero inequivocabilmente un discorso proprio (o ne fossero già esclusi) e lo sguardo dello spettatore fosse immediatamente investito di una consapevolezza – di una decisione – in tensione tra accoglienza e minaccia. La categoria di testimonianza è stata del resto indagata in maniera approfondita come varco per un’emancipazione dei gruppi esclusi. Rimane, nondimeno, come soglia teorica da investigare l’effettiva portata emancipatoria della testimonianza autobiografica per una riarticolazione dell’ordine discorsivo (quali effetti concreti producono il racconto di Sara e la buona riuscita del suo viaggio?), volendo chiarire fino a che punto – e per mezzo di quali logiche – un’emancipazione individuale attraverso la memoria possa andare oltre la propria singolarità e accedere a una dimensione comune.
L'ILLUSIONE DELL'UNIVERSALE
Crialese elabora una prassi di resistenza che gli permette di contrapporsi all’attuale sistema giuridico e – in misura altrettanto rilevante – ai suoi effetti di senso. Gli effetti della legge vanno oltre l’intervento giuridico del legislatore – l’attuazione della norma e delle sanzioni –, ma indirizzano in maniera più ampia i comportamenti etici e la sensibilità riservata ad alcune tematiche. L’interesse di Crialese ricade su questo secondo elemento, sui comportamenti indotti dalla norma del 2009 sull’immigrazione clandestina, seppur non prescritti nel testo della legge. Il film ha ricevuto dure critiche per aver prospettato l’esistenza di una legge dello Stato, che vieta ai pescatori di salvare in mare i clandestini diretti verso le coste italiane. Il capitano della Guardia di Finanza, interpretato da Claudio Santamaria, chiarisce la contraddizione registrata da Terraferma.
Guardia di Finanza: Lei ha l’obbligo di denunciarli, non lo sa?
Pescatore: No, non sono pratico di leggi
GdF: Ah non è pratico? Bisogna che cominci a impratichirsi. [...] Non avete il permesso per portare i turisti a mare e in più avete commesso un reato ancor più grave, favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
P: E il codice del mare lo conosci? Quei cristiani dovevo farli morire in fondo al mare?
GdF: Qui le cose sono cambiate. Lo dica anche ai suoi colleghi. Il natante verrà sigillato, mi consegni le chiavi.
A tal proposito, Vittorio Moroni, collaboratore di Crialese in Terraferma, ha dichiarato in un’intervista – concessa con il regista a Venezia – che ‘il film si muove su un altro livello, abbiamo capito che avevamo il dovere di riferirci più che altro allo stato d’animo che quella impostazione suggerita dallo Stato stava generando nelle coscienze delle persone’.
Contro tale ‘stato d’animo’, Crialese assume il Codice del Mare come base del suo impegno, dimostrazione o appello a un sentimento e un’idea differenti di accoglienza verso gli immigrati.Dopo le conquiste in Italia meridionale e delle isole di Sardegna e Sicilia, i Romani cominciarono a indicare il mare che solcavano come Mare Nostrum, definizione che con l’avanzare dei confini dell’impero finirà per abbracciare l’intero bacino del Mediterraneo. Mare Nostrum pare denotare uno spazio comune di navigazione, ma si sviluppa in seguito alla conquista di nuovi porti e territori e alla loro incorporazione in un’identità geografica, economica e culturale unica.
La cancellazione dell’origine contingente della proposta di impegno, articolata da Crialese in Terraferma, alimenta l’illusione di un principio indifferenziato di accoglienza. Le due analisi proposte giungono in fine a far emergere la problematicità di tale assunzione. Il regista fa discendere dalla vita in sé la possibilità di una e una sola politica, sostanzializzando quella che è una posizione contingente. Destoricizzare la prassi politica determina, contrariamente alle intenzioni che la ispiravano, l’assorbimento delle differenze all’interno di un corpus unitario e la latente istituzione di nuove forme di esclusione.