[Con Eda Özbakay]
Susanna Basso è nata a Torino dove lavora come traduttrice prevalentemente per Einaudi. Nel corso degli anni ha vinto numerosi premi e riconoscimenti: il Premio Procida (nel 2002 per la traduzione di “Espiazione” di McEwan e nel 2014 per “Lasciarsi andare” di Munro), il Premio Mondello (2006 per “I Fantasmi di una vita” di Hilary Mantel) e il Premio Nini Agosti Castellani (nel 2007 per la traduzione di Jane Austen). Tra gli autori da lei tradotti Ian McEwan, Alice Munro, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Elizabeth Strout Martin Amis e Jane Austen. Nel 2010 ha pubblicato il saggio "Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti" (Bruno Mondadori).
Quando è diventata traduttrice? Qual è stato il suo percorso professionale?
All'inizio degli anni 80 Barbara Lanati è stata la mia maestra all'università: fu lei a organizzare un primo seminario di traduzione all'università di Torino che definiva carbonaro, e che in realtà per me e per alcuni colleghi è stato fondamentale. In quel seminario, quasi un po’ per gioco, per audacia della nostra maestra, traducemmo insieme delle poesie di Amy Lowell, una poetessa americana di inizio Novecento. Ci divertimmo immensamente, era la nostra prima esperienza di traduzione e avevamo questa incredulità di poter lavorare sulla poesia. Alla fine del seminario Barbara Lanati parlò del nostro lavoro all'editore Einaudi, che decise di pubblicare il libro. Così è cominciata, in termini assolutamente improbabili perché partire con la poesia e con l’Einaudi, iniziare da studenti universitari è l'opposto di quanto è poi successo dopo. Però era stato intanto agganciato in noi un entusiasmo fortissimo per questo genere di pratica, c'era stata una sorta di apertura, questo crederci da parte di una docente come Barbara Lanati. Ovviamente negli anni a seguire, per farmi le ossa, ho tradotto anche testi di un valore letterario di tutt'altro livello, e poi sono partita nel 1988, quindi dopo 8 anni di gavetta, con un'altra fortuna: una prova di traduzione indetta sempre da Einaudi perché il nuovo romanzo di Ian McEwan era in quel momento rimasto senza traduttore. Partecipai a questa prova di traduzione per “Bambini nel tempo” e da lì ho cominciato. Per me è stato l'inizio di una fortunatissima collaborazione con Einaudi e con alcuni autori fantastici.
La cosa curiosa è che io sia partita insieme a questi altri colleghi dal fondo, cioè da quello che si raggiunge a fine carriera. È stata un'esperienza davvero esaltante, perché mettersi in contatto con la parola e con il dettato poetico di Amy Lowell è stato un privilegio assoluto che ci ha permesso di affacciarci a questo mestiere in modo estremo. La poesia mette di fronte praticamente all'impossibile. Essere in tanti voleva dire misurarci, negoziare tra di noi, ammirare qualcuno che aveva avuto un'idea, farsi venire altre idee sulla scorta di quello che si era sentito. Fu un'esperienza davvero entusiasmante. In realtà, invece, la pratica della traduzione ti mette di fronte alla solitudine del traduttore, perché nei lavori che si susseguono negli anni, a parte gli incontri meravigliosi con dei colleghi, sei solamente tu e il tuo testo.
Credo che questo sia, in fondo, il regalo più grande che la traduzione offra in tutte le angosce che produce, in tutte le sensazioni di inadeguatezza: scoprire la molteplicità di un testo a partire dalla constatazione che la lettura è molteplice. La traduzione è un gioco in perdita che si recupera in molteplicità, rimandando alla possibilità che qualcun altro trovi qualcos'altro, o tu stesso anni dopo o il giorno dopo. Non importa come ci si arriva, ma non è mai finita lì. L'insoddisfazione è sicura ed è costante però rimanda a un'altra possibilità.
Secondo me anche per il traduttore stesso, nel tempo, si apre una molteplicità nelle scelte, anche nell'interpretazione di quanto ha scritto in precedenza. Non rileggo volentieri le mie traduzioni, non perché le disconosca, ma perché – come nel racconto di Borges – incontrare lo sconosciuto che siamo stati molti anni prima mette un po’ in imbarazzo. Magari anche nello scoprire di essere stati a tratti molto più temerari o addirittura più brillanti. Io riconosco alla me stessa di molti anni fa un’audacia sui testi che adesso non ho più. Sembra tutto più esitante ora. Spero di avere guadagnato qualcosa in termini di consapevolezza, ma se rileggo delle mie traduzioni passate, ho la sensazione di essere quella lì. Sebbene non del tutto.