top of page

Fioriture per tempi diversi. La vegetariana di Han Kang e le metamorfosi vegetali



Una notte di febbraio, il signor Cheong si sveglia e si accorge che Yeong-hye, sua moglie, non è accanto a lui. La trova in cucina, accovacciata, con indosso solo la camicia da notte. “Ho fatto un sogno”, sussurra. La mattina seguente è ancora lì con i capelli scompigliati, intenta a svuotare frigorifero e congelatore: carne, latte, uova, tutto finisce nella spazzatura.

 

“Tutt’intorno a lei, il pavimento della cucina era ricoperto di sacchetti di plastica e contenitori a chiusura ermetica, sparpagliati dappertutto: non c’era un solo centimetro libero dove mettere i piedi senza calpestarli. Carne di manzo per lo shabu shabu, pancia di maiale, due stinchi di bue nero, calamari sottovuoto, anguilla affettata che mia suocera ci aveva mandato secoli prima dalla campagna, ombrine essiccate legate con dello spago giallo, confezioni ancora chiuse di ravioli e un numero infinito di pacchetti pieni di chissà che cosa ripescati dalle profondità del frigo. Si sentiva un fruscio: mia moglie stava mettendo le cose attorno a sé, una alla volta, dentro sacchi della spazzatura neri. Alla fine persi le staffe.”

Han Kang pubblica La vegetariana nel 2007, ma sarà dal 2015 – in concomitanza con la traduzione in lingua inglese – che il romanzo otterrà ampia diffusione e riconoscimenti. La storia si compone di tre parti (“La vegetariana”; “La macchia mongolica”; “Fiamme verdi”) che accompagnano le vicende di Yeong-hye in una metamorfosi scandita da silenzi e rinunce.

Il sogno da cui tutto ha inizio è un sogno angosciante, fatta di sangue, carne e un senso di colpa che sembra conficcarsi nel corpo: “Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì”. I traumi del passato si mescolano a incubi ricorrenti: le percosse subite, il conformarsi alle aspettative familiari, il ricordo del cane che, dopo averla morsa, fu costretta a mangiare. Giorno dopo giorno, il corpo di Yeong-hye si consuma: diventa sempre più magra, la pelle pallida, gli zigomi affilati, lo sguardo vuoto. L’unico momento di tregua arriva quando il cognato, un videoartista ossessionato dalla macchia mongolica sulla sua pelle, dipinge il corpo di Yeong-hye con piante e fiori. In quella macchia minuscola simile a un livido il cognato riconosce “qualcosa di antico, qualcosa di pre-evoluzionistico, o forse una traccia di fotosintesi”, ed è come se le sue parole individuassero nella vita di Yeong-hye un’affinità e un destino toccatole da sempre in sorte.

La parte conclusiva del romanzo si concentra su In-hye mentre si prende cura della sorella minore. Sono passati tre anni e Yeong-hye è ricoverata in un ospedale psichiatrico dove le è stata diagnosticata un’anoressia nervosa. Il suo peso è sceso sotto i trenta chili e trascorre il tempo imitando gli alberi in una verticale perfetta: i capelli lunghi e folti, le mani piantate come radici nel terreno. Sembra che voglia lasciarsi morire. Eppure la sua non è una rinuncia alla vita ma alla vita umana e animale per rimanere dritta e immobile tra gli alberi, ricusando un mondo di violenza e sopraffazione.

Ogni tentativo di alimentazione si rivela vano, Yeong-hye contrae l’esofago rendendo impossibile le cure. Le sue viscere si sono atrofizzate ed è a quel punto che confida alla sorella il suo segreto. Non è più un animale, non ha bisogno di mangiare, ha bisogno soltanto di acqua. E quando la sorella le chiede se abbia mai visto una pianta parlare, Yeong-hye le risponde con un sorriso enigmatico, “Le parole e i pensieri presto spariranno tutti”.

In-hye non sa interpretare i comportamenti della sorella minore, ma standole accanto arriva a comprenderne lo stato d’animo. Nel corso della vita ha sperimentato anche lei lo stesso malessere. “Forse, a un certo punto, Yeong-hye ha semplicemente lasciato cadere l’esile filo che la teneva legata alla vita di ogni giorno.”

 

“In-hye richiama alla mente l’immagine della sorella ritta sulle mani. Aveva scambiato il pavimento di cemento dell’ospedale per la soffice terra dei boschi? Il suo corpo si era trasformato in un tronco robusto, con bianche radici che le spuntavano dalle mani e si ancoravano al suolo nero? Le sue gambe si erano allungate in alto, verso il cielo, mentre le braccia si spingevano fino al nucleo stesso della Terra, con la schiena rigida e tesa a sostenere quella duplice crescita? Mentre i raggi del sole le bagnavano il corpo, l’acqua che impregnava il suolo era stata assorbita dalle sue cellule, per poi farle sbocciare dei fiori tra le gambe? Quando Yeong-hye si era tenuta in equilibrio a testa in giù allungando ogni fibra del suo corpo, erano queste le cose che si erano risvegliate nella sua anima?”

Han Kang ha affermato in più occasioni che il personaggio di Yeong-hye trae ispirazione da un verso di Yi Sang, un poeta coreano dell'inizio del XX secolo, che cercò nella poesia una via d’uscita dalla violenza coloniale giapponese, "Credo che gli esseri umani dovrebbero diventare piante". Queste parole offrono una chiave preziosa per capire la trasformazione di Yeong-hye: una protesta e insieme una resa, davanti a un’angoscia impossibile da sostenere.


bottom of page